Giuseppe Feola

 

Aristotele sull’analogia tra le facoltÀ cognitive degli esseri umani

e degli altri animali

 

Aristotle on the Analogy between the Cognitive Faculties

of Human Beings and Other Animals

 

Abstract

In Historia animalium VIII 1.588a18 ff., Aristotle describes the cognitive powers of non-human animals as sketches of human cognitive powers. According to the wording he chooses here, the cognitive powers of non-human animals are “traces” or “footprints” (ἴχνη, 588a19) of human ones. In this paper I explore the conceptual framework that lays behind this image, in order to show that it is much more than a rhetorical figure, and that Aristotle’s wording encompasses a whole articulated theory, whose details are set out in De anima and the Parva naturalia. Moreover, I try to clarify some technicalities of the scientific model he devises in order to explain certain features of the sensory-perceptual part of the soul (with particular attention to the perception of the so-called “common” and “incidental” sensory items) that bear a real analogy to the functions of reason and intellect, and that can consequently be considered their precursors.

 

Keywords

Non-human Animals, Sense-perception, phantasia,

Reason and Intellect, Analogy

 

Author

Giuseppe Feola

Università “G. D’Annunzio” di Chieti e Pescara

giuseppe.feola1@gmail.com

 

 

1. Historia animalium VIII 1.588a25-b2: temi e problemi

 

Gli studi sulla psico-biologia animale di Aristotele, ossia sulle sue teorie circa la cognizione e sul comportamento animale, sono molto cresciuti negli ultimi vent’anni,[1] e affrontano varie sfaccettature delle sue ipotesi circa la relazione tra facoltà cognitive e comportamento.[2] Manca però ancora, a nostro avviso, un tentativo complessivo di ricostruzione che consideri sia lo schema unitario di tutte le sue ipotesi a riguardo, sia la varietà di applicazioni in cui tale schema è utilizzato.[3] Senza la pretesa di esaurire qui l’argomento, si cercherà di fornire una chiave di lettura tramite la nozione di phantasia.

Secondo Aristotele, tra tutte le specie animali, solo quella umana possiede il logos (λόγος)[4] o “ragione”.[5]

Alle altre specie animali sono attribuite differenti forme di intenzionalità. La domanda che qui si pone è la seguente: che tipo di intenzionalità Aristotele attribuisce agli animali non umani (alla lettera, “fiere”, θηρία[6])? In via preliminare, sulla base di un esame molto superficiale dei testi, riconosciamo due tipi di intenzionalità attribuita ad essi: ovviamente la sensazione semplice, che è la differenza essenziale del genere animale nell’ambito del più ampio significato di vivente,[7] e poi altre forme, su alcune delle quali avremo modo di soffermarci. Il primo tipo è assai studiato dallo Stagirita nelle sue trattazioni sulla sensazione elementare e sulle sue tipologie;[8] non sarà dunque questo l’argomento in esame. Per quanto riguarda il secondo, Aristotele attribuisce ad alcuni animali forme di intenzionalità non limitate ai cinque sensi: la phantasia (φαντασία),[9] la memoria (μνήμη),[10] ed anche altre, a quanto sembra di poter evincere da Historia animalium VIII 1.588a25-b2. Ivi Aristotele enumera caratteri anatomici e funzionali in qualche modo comuni, seppur con differenze, all’uomo e agli altri animali. Alcuni di questi caratteri sono comuni solo “per l’analogia”; per altri, le differenze sono “secondo-il-più-e-il-meno”, sono cioè questione di misura:[11]

 

Infatti per alcuni dei caratteri menzionati è <solo> nel più e nel meno che alcuni animali differiscono dall’uomo, e che l’uomo differisce da molti degli animali; rispetto ad altri [caratteri] c’è analogia: come infatti nell’uomo [vi sono] tecnica e sapienza e comprensione, così alcuni degli animali hanno un’altra siffatta capacità naturale. Quanto detto è chiarissimo per chi osserva la condizione dei bambini: in quella fase di tempo, è possibile vedere come tracce (ἴχνη) e semi (σπέρματα) delle disposizioni che poi vi saranno, e l’anima non differisce in nulla, per così dire, da quella degli animali non umani in questo periodo di tempo. Così, non è irragionevole se alcune caratteristiche [della loro anima] sono identiche, altre simili, altre ancora analoghe a quelle degli altri animali.[12]

 

Le parole chiave “traccia” o “impronta” (ἴχνoς), e “seme” (σπέρμα) caratterizzano il rapporto tra le prestazioni cognitive proprie dell’infante e quelle dell’uomo adulto. Le capacità cognitive infantili, pre-verbali, sono esplicitamente assimilate a quelle cognitive di alcune specie non umane: Aristotele può affermare che le une e le altre non differiscono in nulla – almeno “per così dire” (ὡς εἰπεῖν, 588b1).[13]

Nello sviluppo delle facoltà sono quindi riconosciute due fasi: nella prima vi è un’identità per genere delle prestazioni cognitive del bambino con quelle di alcuni animali; da tali facoltà si svilupperanno le facoltà umane adulte. La parola “seme”, a proposito delle facoltà infantili, sembra riferirsi solo alla condizione infantile, mentre “traccia, impronta” appare più atta a caratterizzare la condizione non umana, al centro dell'attenzione di Aristotele in questo capitolo. Passiamo dunque ad esaminare quale sia l’uso di quest’ultima parola, e cerchiamo di capire quali teorie implichi: il modello che andremo a ricostruire dovrà giustificare lestensione delle facoltà in esame a una parte del regno animale.

 

2. L’articolazione e la natura dell’ipotesi di Aristotele

 

L’ipotesi principale di Aristotele muove da questa osservazione: un animale umano sviluppa progressivamente le proprie capacità linguistiche e razionali a partire da un grado in cui non ha ancora logos, ma è capace di prestazioni cognitive identiche o affini[14] a quelle di alcune specie animali. Tale osservazione si fonda sull’esperienza di innumerevoli generazioni, ed è perciò per Aristotele inconfutabile. L’ipotesi deve spiegare come sia possibile in rerum natura che un vivente passi da uno stadio in cui possiede determinate funzioni non logiche e non verbali, comuni ad alcuni animali e agli infanti, ad uno in cui possiede le facoltà logiche e verbali, distintive dell’umano adulto.[15]

Per esempio, sia il cane sia l’infante sanno distinguere un estraneo di cui diffidare da un amico o parente fidato: possiedono le categorie di alleato ed estraneo e tendono a collocare (a volte con successo, altre no) persone o animali con cui devono rapportarsi nell’una o nell’altra categoria. Ciò presuppone che l’infante e l’animale ricorrano alle medesime risorse: le loro anime quasi non differiscono (588b1), ma attraversano le stesse tappe cognitive.[16] Così, ricorrendo alla teoria delle capacità del vivente, ossia dei tipi di anima, è possibile individuare queste risorse in quelle dell’anima sensitiva o percettiva. In questo modo tanto l’infante quanto l’animale rappresentano istanze di quel tipo di organizzazione propria del vivente che è l’anima percettiva,[17] l’animale perché ha l’anima percettiva per essenza; l’infante perché non possiede ancora le funzioni dell’anima intellettiva-razionale che nello sviluppo si sovrapporranno all’anima percettiva, mutandone le funzioni.

Aristotele sembra ritenere possibile un modello di cognizione non verbale, non elementare (cioè non limitata ai cinque sensi), sufficientemente astratto da valere come modello del funzionamento dell’anima percettiva in generale, tanto nei casi in cui sia la funzione dell’anima essenzialmente propria di alcuni animali, quanto nei casi in cui appartenga agli infanti, e quindi non sia ancora subordinata al governo dell’anima razionale.

In questione, quindi, non sono né l’infante né l’animale (le cui facoltà cognitive sono oggi oggetto di indagini scientifiche notevolmente ardue[18]), ma il modello generale di un’anima non linguistica e non razionale, non limitata ai cinque sensi. La sua possibilità è garantita dalla presenza di prestazioni cognitive complesse in enti non ancora razionali, come gli infanti. Aristotele costruisce il suo modello unendo le osservazioni condotte sugli infanti e sugli animali alla teoria dell’anima percettiva sviluppata nel De anima e nei Parva naturalia.[19] Inoltre, in An. post. II 19 Aristotele spiega i vari stadi di sviluppo dell’anima umana, descrivendo lo sviluppo dell’esperienza dal grado più semplice, quello della sensazione elementare, fino a quello del possesso dei concetti scientifici.

Abbiamo visto che Aristotele è propenso a trattare come realtà tra loro confrontabili l’anima umana in fase di sviluppo e le anime di certi animali. Il modello di An. post. II 19 fornisce elementi preziosi da integrare alle teorie del De anima e dei Parva naturalia. Cercheremo ora di interpretare quanto Aristotele afferma sui gradi di sviluppo delle facoltà umane per comprendere la sua teoria sulle facoltà degli animali.

Ciò permette, osservando le fasi della crescita umana, di ‘mappare’ il territorio intermedio tra facoltà cognitive sensorio-fantastico-percettive, che nell’infante non interagiscono col logos, e le facoltà adulte, nelle quali l’interazione tra logos, phantasia e percezione è invece pervasiva.

 

 

 

 

3. Un’ipotesi di lavoro sulla teoria aristotelica circa la sensazione e percezione

 

Secondo Aristotele, la sensazione elementare è già cognizione di proprietà di enti nel mondo o di caratteri dell’ambiente, ed è dotata di intenzionalità, ossia di riferimento cognitivo al mondo esterno. Il sostantivo αἴσθησις e il verbo αἰσθάνομαι possono riferirsi infatti correntemente sia all’atto dei cinque sensi, sia ad azioni molto più complesse: in ogni caso, si tratta di atti cognitivi rivolti all’esterno.[20]

Per giustificare l’attribuzione dell’intenzionalità ad animali che egli presume non dotati di logos, Aristotele sviluppa il concetto di ‘discriminazione’. In De an. II 6.418a14, 11.424a5-10, e III 2.426b10, egli definisce la sensazione un κρίνειν, anche se non è diretta dalla ragione in ogni sua istanza.[21] Essa comunque comporta il distinguere e il discernere una cosa da un’altra.[22]

Ora, come ci può essere intenzionalità senza proposizionalità? Si può pensare a una corrispondenza biunivoca tra gli stati del mondo esterno, che l’animale percepisce in quanto sensibili, e gli stati fisiologici del sistema sensorio centrale. L’azione sulla pupilla di un’istanza nell’ambiente di un determinato colore C1, produce su di essa e poi sull’organo di senso centrale un discostarsi da un ‘blind spot’ intermedio (chiamato in De an. III 13.435a21-22 “medietà”: μεσότης), che si concretizza (e viene registrato) come stato sensorio (αἴσθημα) C2; quest’ultimo risulta automaticamente riferito a C1 in virtù della corrispondenza tra le varietà dei sensibili esterni e i modi in cui lo stato del sensorio si discosta dalla ‘medietà’. Per Aristotele è così che distinguiamo e discerniamo i colori.[23]

Come tra poco vedremo, a molte specie animali Aristotele attribuisce tipi di intenzionalità ben più complessi della sensazione elementare. Questi, in assenza di logos, devono necessariamente spiegarsi sulla base di ipotetiche ‘estensioni’ delle facoltà sensorio-percettive, ossia come prestazioni dell’anima sensitiva. Inoltre, negli animali in cui si manifestano questi tipi di intenzionalità, l’anima sensitiva che ne è responsabile è anche la forma sostanziale dell’animale stesso. Ora, il grado molto elevato di unità ontologica che Aristotele pone come irrinunciabile per ogni forma sostanziale esige che anche le facoltà percettive complesse si colleghino organicamente alla sensazione semplice, affinché l’anima sensitiva si caratterizzi in modo unitario. Dovremo indagare in che modo e con quali limiti tale unitarietà sia garantita.

 

4. La percezione complessa

 

In De an. III 3 Aristotele postula negli animali la presenza della phantasia. L’introduzione della phantasia serve a risolvere il problema della natura dei tipi di cognizione intermedi tra sensazione semplice, ragione e intelletto.[24] La permanenza dello stato sensorio è il punto di partenza di una teoria su un livello di cognizione non concettuale e non proposizionale, il livello da cui sorgono intelletto e logos. Secondo infatti An. post. II 19.99b36-37:

 

Quanto si presenta la sensazione,[25] in alcuni animali si produce una permanenza dello stato sensorio, in altri invece non si produce. Gli animali nei quali non si produce, o non hanno affatto cognizione al di fuori della sensazione, o almeno non ne hanno di ciò circa cui non si produce in essi una permanenza dello stato sensorio. Altri invece possono conservare nell’anima lo stato sensorio anche dopo che hanno percepito.[26]

 

Cruciale, qui, è il concetto di “permanenza dello stato sensorio” (μονὴ τοῦ αἰσθήματος, 99b36 ss.). Negli Analitici posteriori Aristotele si esprime così, mentre in De anima III 3[27] introduce la funzione di φαντασία. Aristotele definisce la phantasia come “moto generato dalla sensazione in atto” (κίνησις ὑπὸ τῆς αἰσθήσεως τῆς κατ’ ἐνέργειαν γιγνομένη, De an. III 3.429a1-2). È un impulso fisiologico, dotato di valenza cognitiva, che perpetua l’impulso sensorio, e persiste nel corpo senziente come omogeneo all’impulso stesso.[28] Per “omogeneo” s’intende che i suoi oggetti intenzionali sono dello stesso tipo di quelli della sensazione. La phantasia più semplice è quella relativa agli oggetti dei cinque sensi. Essa riattiva e prosegue uno stato cognitivo il cui oggetto intenzionale è il medesimo (o quanto meno della stessa specie[29]) di quello già colto.[30]

La nostra normale e assai complessa esperienza sensorio-percettiva si rivolge però ad oggetti intenzionali più complessi. La phantasia può riproporre in toto una trascorsa esperienza dei sensi o può costruire oggetti intenzionali alternativi alle passate esperienze del soggetto.[31] Se l’episodio cognitivo si svolge in condizioni non favorevoli al corretto esercizio della sensazione, p.es. nel sonno, o in stato di malattia, o dove non sono soddisfatti i requisiti ambientali ottimali, il soggetto può non essere in grado di distinguere tra l’oggetto intenzionale proposto dalla phantasia, privo di riscontro nell’ambiente, e la realtà ora presente.[32] In tal caso, esso si rapporta all’oggetto rappresentato dalla parvenza fantastica come se fosse un ente reale o una circostanza occorrente.

Ciò di cui le condizioni sfavorevoli (endogene o esogene) sono considerate responsabili è l’incapacità del soggetto di rifunzionalizzare i plessi di phantasiai[33] come tasselli di una nuova ricostruzione efficace dell’ambiente: esse sono cioè chiamate in causa per spiegare l’occasionale incapacità del soggetto di usare le phantasiai come completamento della sensazione attuale in vista di una percezione complessa efficace fondata sull’esperienza.

In situazioni favorevoli, la ricostruzione è supervisionata da una funzione cognitiva diversa, sovraordinata alla phantasia, che Aristotele chiama “principio controllore e dirimente” (τὸ κύριον καὶ τὸ ἐπικρῖνον, Insomn. 3.461b25), il cui compito non è produrre edifici complessi usando le phantasiai come materiale costruttivo,[34] bensì scartare le costruzioni fallaci a vantaggio di quelle affidabili: esso controlla, confronta e sovraintende (dando una ratifica, o negandola ove non si riscontri coerenza tra diversi plessi di rappresentazioni), non costruisce.[35]

La dimensione diacronica che scaturisce dal parlare di “permanenza dello stato sensorio” richiede dei criteri d’identità attraverso il tempo; essi devono essere tali da permettere di ‘scavalcare’ il fatto che lo stato sensorio corrisponda o meno a un’interazione attiva tra l’animale e l’ambiente. Dallo stato sensorio dobbiamo passare a considerare il moto o impulso sensorio,[36] inteso come processo che può continuare ad avere effetti nella fisiologia dell’animale dopo che l’episodio originario è cessato, e che può tornare a riattivare il medesimo stato cognitivo. Avendo già automaticamente riferito lo stato sensorio a un carattere dell’ambiente in virtù della ‘medietà’ (cfr. supra, §3), definiamo il moto sensorio-percettivo al modo seguente: un processo fisiologico conta come moto sensibile k se (e solo se) k induce uno stato sensorio (αἴσθημα) nel sensorio centrale.[37]

Introduciamo ora un concetto non consueto nella bibliografia sulla teoria aristotelica del vivente, ma che si può legittimamente estrapolare dai testi. Aristotele ipotizza che l’impulso sensibile abbia quantità, sia nel senso di intensità maggiore o minore (cfr. Sens. 7, passim[38]), sia nel senso di maggiore o minore durata del condizionamento esercitato sul sensorio, che si abitua al sensibile in quantità proporzionale al durare (cfr. Insomn. 2.459b11-13, πολὺν χρόνον) della sensazione. A quest’ultimo proposito, è come se Aristotele concepisse il genere sensibile2 (distinguiamo d’ora in poi lo stato indotto nel sensorio e il sensibile esterno, chiamando il primo “sensibile2” e il secondo “sensibile1) come un genere le cui istanze possono fissarsi nel sensorio (che ne è il sostrato) con maggiore o minore tenacia a seconda della durata della stimolazione. Potremmo esprimere questo concetto dicendo che la percezione di qualcosa1 (un carattere dell’ambiente) carica l’organo di senso del corrispondente stato sensorio, qualità2, con tenacia proporzionale alla durata della stimolazione.

Se questa interpretazione è corretta, allora implica che, ad esempio, se un punto della mia pelle passasse attraverso 10 cm di aria secca, poi attraverso 5 cm di aria umida, si accumulerebbe nel mio sensorio centrale una quantità di secco2 doppia della quantità di umido2.[39] È possibile che tale ‘quantità’ fosse intesa dallo Stagirita in senso letterale, ossia come quantità di sangue che, durante l’episodio di sensazione, dal sensorio periferico giunge al cuore qualificata secondo quel dato stato sensorio.

Il permanere dei sensibili2 sotto forma di phantasmata fa sì che, pur senza che si abbia percezione del tempo (una capacità ulteriore e più complessa), l’effetto del primo stato sensibile, dopo essersi accumulato in quantità proporzionale alla lunghezza percorsa, permarrà anche mentre quella parte della pelle percorre il secondo sensibile: andrà così a comporsi con lo stato sensorio relativo al secondo sensibile, in rapporto di 2:1. Avremo così uno stato sensorio complesso, composto dalla successione dei due stati sensori, di diverse durate, relativi ai due diversi sensibili elementari. Lo stato sensorio composto è così dato dal susseguirsi dell’uno all’altro sensibile, ognuno con la sua propria durata e consente la percezione del mutamento ambientale, della successione e della quantità.

Sulla base dell’ipotesi della permanenza dello stato sensorio abbiamo così costruito un modello percettivo del moto e del mutamento ambientale, ovvero del sensibile comune a partire dal quale lo Stagirita ritiene di poter costruire tutte le altre percezioni di sensibili comuni (cfr. De an. III 1.425a16-20).[40] La nostra ipotesi prevede che – conformemente al programma esplicativo schematizzato in De. an. III 1.425a16-20 – è possibile costruire una teoria relativa a tutti i tipi di percezione dei sensibili comuni e per accidens, partendo dalla percezione del moto e ipotizzando che Aristotele avesse in mente un meccanismo di accumulazione e ricombinazione della phantasiai.[41]

In Insomn. 2.460b11-16, Aristotele porta l’esempio di un febbricitante cui appaiono animali su un muro a partire da una somiglianza delle screpolature che vi s’incrociano:

 

Perciò, anche, ai febbricitanti talora appaiono animali sui muri, a partire da una piccola somiglianza delle linee che vi s’incrociano. E questi fenomeni a volte si intensificano insieme agli stati di malattia a tal punto, che, se i soggetti non sono molto ammalati, non sfugge loro che si tratta di apparenze false; ma se la malattia è più grave, se ne lasciano suggestionare.[42]

 

Il passo è ricco di indizi su come Aristotele concepiva la sua teoria sulla sensazione complessa. In primo luogo, sembra presupposto un meccanismo in base a cui il sistema sensorio registra l’eventuale somiglianza tra l’esperienza di qui e ora (l’incrocio delle crepe sul muro) con esperienze trascorse, e reagisce riportando in atto plessi di stati sensori accumulati contemporaneamente a tali sensazioni originarie.

In secondo luogo, si nota che gli aisthēmata prodotti dall’episodio in corso si uniscono ai phantasmata dei pregressi episodi, formando un’unità coesa in cui l’identità dei singoli mattoni non è più riconoscibile, perché si impone l’unità composta del nuovo aisthēma, formato dagli uni e dagli altri. Il nuovo stato sensorio, attivandosi, produce una nuova esperienza, diversa da quella che sarebbe prodotta separatamente dai suoi componenti.

In terzo luogo, notiamo che l’esempio addotto è un esempio di percezione falsa di un sensibile per accidens (l’animale) e di percezione di sensibili comuni (figura, moto, quiete) in parte vera e in parte falsa. Tale performance è esplicitamente attribuita al livello sensorio dell’anima: anche se l’esempio parla di un essere umano, la descrizione sembra poter valere anche per gli altri animali.

Già il fatto che qui sia descritto un episodio di sensazioni di sensibili comuni in cui verità e falsità si mescolano inestricabilmente, così come normalmente accade nell’esperienza, mostra che[43] per Aristotele la medesima teoria deve spiegare tanto la percezione vera di sensibili per accidens e comuni quanto quella falsa. Se quindi questo passo del De insomniis spiega la percezione falsa di sensibili per accidens,[44] si può ipotizzare che anche quella vera fosse da Aristotele spiegata allo stesso modo. L’ipotesi è rinforzata da De an. III 3, dove Aristotele afferma che la teoria sulla percezione complessa, ancora da costruire, dovrebbe spiegare in modo unitario tanto la percezione complessa vera quanto quella falsa.[45]

Riassumendo. Aristotele costruisce, dapprima solo a grandi linee nel De anima, e poi con maggiore dettaglio in alcuni dei Parva naturalia, una teoria sulla parte sensorio-percettiva dell’anima che permette di attribuire anche ad esseri privi di logos forme raffinate di discriminazione delle caratteristiche e degli oggetti dell’ambiente. In tal modo, pensa di poterne spiegare la capacità di attuare comportamenti appropriati alla sopravvivenza e al raggiungimento dei fini che la natura di ciascuna specie pone agli individui. Queste forme di discriminazione sono attribuite all’aisthētikon, mediante l’ipotesi della capacità di incamerare phantasmata e costruire spontaneamente – per aggregazione diretta dall’abitudine – stati cognitivi complessi costituiti di aisthēmata e phantasmata, che automaticamente ‘proiettano lì fuori’ oggetti intenzionali complessi, tali da poter corrispondere in maggiore o minor misura all’ambiente con cui al momento l’animale deve interagire. Nel caso estremo, quello del sogno, la corrispondenza è nulla.

 

5. L’habitus fantastico percettivo e lo status ontologico del senziente

 

Secondo Aristotele, gli animali hanno caratteri[46] che derivano dalle loro abitudini.[47] Leggiamo in De divinatione 1: “i melancolici [] a causa della (loro) mutevolezza, velocemente ciò che è successivo (nella serie delle phantasiai) si presenta a essi”;[48] “inoltre, a causa della (sua) veemenza, in essi il moto [fantastico] non è respinto da un altro moto”.[49]

Se l’interpretazione qui proposta è corretta, i phantasmata tornano a riattivarsi seguendo una serie ordinata di ‘precedente’ e ‘successivo’. Tale serie tenderà a riprodurre la successione delle qualità e degli oggetti previamente percepiti nell’ambiente, man mano che l’esperienza dell’individuo si accresce, con sempre maggiore articolazione e fedeltà.[50]

L’habitus fantastico-percettivo è una predisposizione acquisita (condizionata dalla fisiologia dell’animale e sedimentata tramite l’abitudine[51]) a costruire aisthēmata complessi in un modo piuttosto che in un altro, e dunque a distinguere tra due cose piuttosto che tra due altre.[52]

Aristotele costruisce una teoria in base alla quale può spiegare cosa sia percepire un uomo o percepire Antonio senza dover attribuire al soggetto che percepisce né la capacità di coniare nomi proprî (per nominare Antonio) né la capacità di formare concetti (p.es. di uomo). Questo è possibile perché i phantasmata incamerati nel corso della vita dell’animale tendono a ripresentarsi nello stesso ordine dell’episodio di sensazione originaria. Ad esempio, sentiti il giallo e l’amaro, la sequenza di riattivazione dei phantasmata giallo2 e amaro2 riproporrà tendenzialmente quella serie; così alle diverse cose ed eventi che l’animale ha incontrato nell’ambiente corrisponderanno diversi plessi o sequenze di phantasmata; le loro varie possibili combinazioni daranno luogo ad altrettante ‘proiezioni’ di cose ed eventi. Nel sogno, se non ci accorgiamo di sognare, la phantasia del blu è indistinguibile da una vera sensazione di colore; la phantasia di un odore salino è indistinguibile da una vera sensazione di odore salino; avere phantasia di blu e di odore salino insieme, è fenomenologicamente indistinguibile dall’aver sensazione di blu e di odore salino insieme. Se, tra tutte le cose (reali) di cui abbiamo fatto esperienza, solo il mare (quello che noi, animali linguistici, chiamiamo “mare”) è blu e ha odore di sale (p.es. se non abbiamo mai visto un lago salato, o una laguna prossima al mare), allora avere insieme phantasia del blu e dell’odore salino è aver phantasia del mare (anche se non lo si identifica come “mare”, non si sa che è fatto di acqua, non si alcuna idea del fatto che ci si può bagnare ma non si può bere). Nelle condizioni appena descritte, se, invece del phantasma di blu, ho un vero aisthēma di blu (uno stato sensorio dovuto all’azione di un’istanza di blu nel mondo esterno), e se il mio habitus fantastico-percettivo è tale che al phantasma o aisthēma del blu consegua il phantasma dell’odore salino, allora la visione di quel blu causerà la phantasia di un odore salino; e, posto che il plesso blu2+salino2 identifica un determinato tipo di oggetto (che noi, animali linguistici, chiamiamo “mare”), avremo uno stato cognitivo relativo al mare innescato dalla sensazione del blu. Se quel blu che causa ora questo processo è davvero il blu del mare, che sta ora agendo sul mio occhio, ho percezione vera del mare, in presenza del quale effettivamente mi trovo: in tal caso la proiezione di un carattere salato alla porzione d’ambiente che vedo blu è una corretta anticipazione, e lo stato cognitivo complesso è una percezione vera del mare. Se invece quel blu è solo un effetto luminoso dovuto ad una rifrazione del colore del cielo sulla superficie di una pozzanghera (e dunque è, sì, blu, ma non il blu del mare), allora la mia percezione per accidens dell’oggetto come liquido e salato, ossia come mare, è erronea. Se questa ricostruzione è corretta, si può concludere quanto segue:

(I) il phantasma relativo a un sensibile per accidens x si presenta (= ho phantasia di un dato sensibile per accidens x) se un aisthēma porta il mio habitus fantastico ad attivarsi come quando il mio sistema sensorio è stimolato da un plesso di caratteri sensibili propri o comuni che inerisce a quel dato oggetto del mondo, x. Tale plesso, nel mio bagaglio esperienziale, distingue infatti x dalle altre entità di cui ho fatto esperienza;

(II) l’aisthēma, ovvero lo stato sensorio relativo a un sensibile per accidens x, si presenta se l’aisthēma che ha suscitato quella serie di associazioni nell’habitus fantastico-percettivo si riferisce a un plesso di caratteri sensibili realmente appartenenti all’oggetto reale x. L’oggetto x infatti, agendo sui miei sensori, ha prodotto l’aisthēma di partenza, e inoltre ha altri caratteri, oltre a quelli colti dall’aisthēma, che corrispondono alla catena suscitata nel mio habitus fantastico-percettivo. Vedo del blu; quel blu è il blu del mare. Se, a seguito dell’occorrenza dell’aisthēma del blu, si suscita in me la catena che, nel mio habitus fantastico-percettivo, identifica il mare, allora percepisco il mare; se invece si suscita quella che identifica il cielo, sono in errore.

Leggiamo in Insomn. 2: “appaiono alcune cose non solo se il sensibile muove, ma anche se il senso si muove da sé, qualora si muova come se fosse mosso dal sensibile”.[53] Ciò che si muove, va però notato, non è la capacità sensitiva con cui si nasce: questo per Aristotele è impossibile.[54] Il senso si muove da sé in quanto l’habitus fantastico-percettivo, ossia la disposizione in cui si trova il soggetto dopo che ha già iniziato a esplorare l’ambiente, è capace di riattivarsi in modo più o meno appropriato nel riconoscere le situazioni che incontra.

Così, Aristotele è già prossimo ad attribuire alla parte sensorio-percettiva dell’anima un’autonomia analoga a quella propria dell’anima intellettiva e razionale: è tale somiglianza a permettergli di attribuire a taluni animali quelle “tracce” delle disposizioni cognitive umane adulte che Hist. anim. VIII 1.588a25-b2 assegna anche agli infanti della specie umana (cfr. supra, §1).

Certo, lhabitus fantastico-percettivo è ben lungi dal permetterci di cogliere la reale natura delle cose: consiste infatti nella mera registrazione delle tendenze dell’ambiente a esibire certi tratti in connessione regolare tra loro. Visto però che i tratti ambientali che l’habitus registra come regolari[55] sono accidenti di sostanze e dipendono, secondo Aristotele, dalla realtà delle cose, reagire a essi è automaticamente reagire alla realtà ambientale.[56]

L’habitus fantastico guida il comportamento e permette di legare la classificazione anatomica a quella etologica,[57] entrando così nella costituzione ontologica degli individui, non come parte della forma sostanziale, ma come ‘plesso’ di proprietà (attinenti alla categoria del quale) che determinate specie – in virtù della forma sostanziale immutabile – possono acquisire, in modi che variano dall’una all’altra. È chiaro dunque che per Aristotele gli animali non agiscono solo in base alla loro natura innata: oltre a questa si attiva in loro qualcosa di non predeterminato. La natura innata fornisce un telaio di possibilità che, nell’incontro con un dato sensibile od un altro, si sviluppano in una direzione o in un’altra, dando luogo ad habitus diversi, non solo da specie a specie, ma anche da individuo a individuo, a causa delle diverse esperienze cui si trovano esposti.[58]

Questo modello cognitivo consente anche di salvare la forma sostanziale dal mutamento: le prestazioni di cui l’animale è capace col cumularsi delle esperienze divengono sempre più raffinate. Ora, tali mutamenti sono propri dell’animale, e si istanziano in cambiamenti del suo sistema percettivo, mentre l’anima soggiace al progressivo passaggio dallo status di potenza seconda o atto primo a gradi successivi di attualizzazione: tutti atti secondi rispetto all’atto primo con cui si identifica. Tali atti secondi, passaggi dell’anima-ousia dallo status di atto primo a quello di atto secondo, si sedimentano come ulteriori specificazioni del corpo animale e ricadono nella categoria della qualità,[59] e non in quella di sostanza; non mutano dunque in alcun modo la forma sostanziale.[60] La stessa forma, passando dallo status di atto primo a quello di atto secondo nei modi possibili, ossia fungendo da telaio dei comportamenti dell’animale, plasma il corpo senziente imprimendo in esso i risultati fisiologici degli atti secondi. In tal modo, fa sì che esso diventi di volta in volta capace di prestazioni sempre più raffinate.

 

6. Attraversare il confine tra non umano e umano

 

A questo punto è possibile occuparci del concetto di ichnos, usato da Aristotele per descrivere il rapporto tra le facoltà cognitive comuni agli infanti ed a certi animali e quelle degli umani adulti (cfr. §1). Rileggiamo il passo:

Infatti riguardo alcuni (dei caratteri menzionati) differiscono (gli altri animali) rispetto all’uomo, e l’uomo rispetto a molti degli animali, per il più-e-meno, [] rispetto ad altri [caratteri] per analogia: come infatti nell’uomo (vi sono) tecnica e sapienza e comprensione, così alcuni degli animali hanno un’altra siffatta capacità naturale. Chiarissimo è quanto detto, per chi osserva la condizione dei bambini: in essi infatti è possibile vedere come tracce (o “impronte”) e semi delle disposizioni che poi vi saranno, e non differisce in nulla, per così dire, la (loro anima da quella delle bestie, in quella fase di tempo, sì che non è irragionevole se alcune caratteristiche (della loro anima) sono identiche, altre simili, altre analoghe a (quelle de)gli altri animali.

 

Qui ichnos, in ragione dell’endiadi con ‘seme’,[61] non indica il residuo di un percorso, ma la traccia che anticipa ciò che si sviluppa più avanti. Ci si può chiedere allora se e in che modo anche le facoltà cognitive animali, p.es. di un cane, possono nel loro rapporto con le umane lasciarsi descrivere da questa metafora. Prendendo sul serio l’equiparazione tra infanti e animali, lo Stagirita potrebbe invitarci a usare An. post. II 19 per la spiegazione di questi tipi di cognizione.[62] Percorriamo dunque ora queste ‘tracce’ e conduciamo un esperimento ermeneutico: ciò che negli Analitici è detto sullo sviluppo delle facoltà umane, lo leggeremo come indizio circa la sua teoria sulla mente umana, come Aristotele stesso, in Hist. anim. VIII 1, invita a fare. La relazione tra questi due capitoli del corpus non è stata a nostro avviso sufficientemente tematizzata: qui leggeremo ‘a ritroso’ An. post. II 19 alla luce di Hist. anim. VIII 1, chiedendoci come, e in che misura, quanto riportato sullo sviluppo della cognizione umana possa applicarsi all’argomento dell’opera biologica, ossia il grado di approssimazione della mente animale a quella linguistica dell’essere umano adulto. Eravamo rimasti a An. post. II 19.99b36-37 e 99b39-100a1: “essendovi sensazione, in alcuni tra gli animali s’ingenera permanenza dello stato sensorio, in altri invece non s’ingenera. [] A quelli nei quali è presente dopo aver sentito, (è possibile) aver(la [i.e. la sensazione o meglio il suo risultato]) ancora nell’anima”. Continuiamo.

 

Avvenendo in gran copia cose siffatte, ecco si genera una diaphora: onde ad alcuni [animali] si genera logos dalla permanenza di cose siffatte, ad altri no.[63]

 

Il parallelo con ciò che Labarrière (1990, p. 420) chiama “proto-reminiscenza”, l’habitus fantastico-percettivo (cfr. §5), ci permette di fornire al passo un senso collegato ai temi delle opere biologiche: alcuni animali hanno un habitus fantastico-percettivo tendenzialmente isomorfo al loro habitat, habitus la cui articolazione interna di rapporti è un λόγος, in senso più esteso e più debole di quando il termine denota la ragione umana. Proseguiamo:

 

dalla sensazione nasce dunque memoria []; da memoria che si genera spesso circa la stessa cosa, [nasce] esperienza: le memorie, molte di numero, sono un’esperienza sola.[64]

 

Il lessico del “nascere da”, unito all’uso della polarità ‘uno-molteplice’, accenna a un rapporto di composizione:[65] l’esperienza ‘nasce dalle’ memorie[66] (qui probabilmente Aristotele non si riferisce alla memoria ‘esplicita’ o ‘tematica’ di Mem. 1, ma alla memoria nell’accezione platonica, mero deposito dei risultati di un trascorso esercizio cognitivo[67]).

 

Dall’esperienza, o da tutto l’universale quietatosi nell’anima, dall’uno al di là dei molti, che in tutti è insito come uno, lo stesso per essi, nasce principio d’arte e di scienza.[68]

 

L’esperienza su un qualcosa Q è una condizione che precorre ciò che nell’essere umano dotato di scienza è l’universale scientifico relativo a Q. L’ esperienza è qualcosa che in tutte quelle memorie sta insito come uno e identico, perché ogni singola occorrenza di una memoria circa Q richiama in funzione – secondo lo schema dell’habitus fantastico-percettivo (cfr. §5) – tale esperienza complessiva, divenuta parte integrante dell’economia cognitiva dell’individuo.[69] Ed è qui, allo stadio in cui l’esperienza si serve dei meccanismi dell’habitus fantastico ma è già qualcosa di ulteriore, è cioè già un proto-universale ‘da cui’ nascerà poi il vero universale, principio del sapere scientifico, che abbiamo certamente valicato (secondo Aristotele di molto) il confine tra animale e umano.

Ma allora dov’era il confine?

Consideriamo più in dettaglio lo stadio del cosiddetto ‘proto-universale’, ossia dell’esperienza: se il proto-universale produce aspettative cognitive non più falsificabili circa Q, non solo vedo ormai un mammifero in ogni elemento dell’ambiente che sia qualcosa di semovente, quadrupede e dotato di peli, ma tale modalità cognitiva è anche corretta. Questo stadio, costituito dall’esperienza umana adulta e informata da una familiarità specialistica con l’oggetto, consente già l’uso linguistico ad un grado di padronanza e proprietà tipico dell’esperto.

In quale punto, allora, abbiamo valicato il confine tra animali non linguistici e linguistici? È chiaro infatti che non tutti coloro che adoperano il linguaggio a proposito di qualcosa possano essere anche esperti e dire cose plausibili allo stesso proposito.

In 100a15-b13 Aristotele si occupa dello stadio, successivo all’esperienza, dell’habitus della scienza; anche qui però ci imbattiamo nella sua concezione degli stati cognitivi comuni a uomo e animali: “si percepisce il particolare, ma la percezione è dell’universale: p.es. di uomo, e non di Callia uomo”.[70]

Com’è chiaro, stiamo parlando dei sensibili per accidens. L’oggetto intenzionale della percezione di un sensibile per accidens può comprendere solo un sottoinsieme dei caratteri dell’oggetto reale, ed è dunque un’astrazione rispetto ad esso: è cioè un universale[71] (100a17-b1). Ora, questo carattere astratto va attribuito anche alla percezione degli animali capaci di sviluppare l’habitus fantastico-percettivo.

Come ha notato M. Wedin,[72] è proprio questa astrazione dell’habitus fantastico-percettivo a candidare la sensazione-percezione-phantasia a germe del pensiero. Ciò che invece la cognizione sensori-percettiva, fondata sulla cumulazione delle phantasiai, non può ottenere, in assenza di linguaggio, è la capacità di confrontare la nozione catturata dall’habitus fantastico-percettivo, non ancora “al di là” (An. post. II 19.100a3-9, cit.) delle molte memorie perché può essere falsificata da nuove esperienze, con il tipo, astratto in modo diverso e più radicale, rappresentato dal segno vocale linguistico.[73] Il segno vocale linguistico rappresenta un tipo, appreso tramite l’educazione linguistica, tale da non poter essere falsificato dalla mia singola esperienza sensorio-percettiva (è ‘al di là’ di essa). Quest’ultima può dirmi se quanto sto sperimentando coincide o meno con la mia pregressa esperienza, e, quando è congiunta al linguaggio, se la cosa ricade sotto un dato universale, ma non può dirmi se i tipi sono stati demarcati in modo appropriato.

A distinguere l’essere umano adulto, l’animale linguistico e ragionevole, dall’animale non-linguistico, per Aristotele non è dunque la mera capacità di sviluppare sistemi di rappresentazioni,[74] bensì il possesso di un sistema di rappresentazioni la cui struttura si fonda su una topografia di tipi astratti convenzionali, sedimentati nel linguaggio. Questa topografia deve obbedire ai seguenti requisiti: (a) deve poter essere confrontata con l’habitus fantastico-percettivo per verificare la sua congruenza con i sensi, la phantasia e la memoria; (b) deve essere più o meno aderente ad un’adeguata rappresentazione del mondo, dunque problematizzabile nella sua portata veritativa rispetto a esso.[75]

Per concludere, il mondo è composto, per lo Stagirita, di ousiai; carattere principe dell’ousia (tanto prima quanto seconda) è quello di non inerire ad alcunché (cfr. Cat. 5, per totum), mentre le fantasmagorie proiettate dai phantasmata e dall’habitus fantastico-percettivo dipendono dal soggetto, poiché dipendono in toto dalle alterazioni dei suoi organi di senso. L’animale non linguistico, reagisce agli oggetti2 proiettati dalle sue proprie rappresentazioni, senza potersi chiedere, grazie ad un sistema astratto di rappresentazioni fondato su tipi, se l’apparenza sensoria sia corretta o meno. Invece, il ricorso al concetto di ‘ousia’, con le sue implicazioni di indipendenza ontologica, distinzione tra soggetto e predicati e catalogazione del reale, permette di tematizzare la cosa esperita come qualcosa di più o meno reale od illusorio. Permette cioè di considerarla come qualcosa di indipendente da noi, ponendo il problema della discrepanza tra apparenza sensibile e realtà esterna.

È quando all’habitus fantastico-percettivo si sovrappone, integrandolo, tale sistema di rappresentazioni (il logos, appunto) riferite a tipi di oggetti intenzionali, che il confine tra animali pre-razionali e razionali è valicato.[76]

 

 

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[1] Cfr. p. es. Carbone (2011), Charles (2013), Cooper (2012), Gourinat (2015), Henry (2013), (2015), Johnson (2005), Küllmann (2001), Leunissen (2010), Quarantotto (2005), Rashed (2002), Sedley (2010), oltre a tutti gli studi contenuti in Connell (2021b).

[2] Cfr., tra gli altri, Connell (2021a), Corcilius (2008), (2013), Charles (2011), Labarrière (2005), Schmitt (1996), e ovviamente tutti gli studi inclusi nel volume edito da Primavesi e Rapp (2020), oltre all’accuratissimo commento al De motu animalium in Primavesi & Corcilius (2018).

[3] Fra i contributi di carattere più sintetico cfr. Beare (1906), Connell (2021), Corcilius (2008), Labarrière (2005), Morel (2007) e (2016).

[4] Cfr. Pol. I 2.1253a10. Si noti che l’intelletto (νοῦς) è anche proprio della natura del dio, che Aristotele chiama ζῷον (cfr. p.es. Metaph. Λ 7.1072b29) senza attribuirgli il logos: quindi è propriamente il logos a costituire la differenza specifica della specie umana rispetto a tutti gli altri enti e, più specificamente, rispetto agli altri animali.

[5] Una tradizione secolare ha portato il latino ratio a fungere da calco del greco λόγος, sia nel lessico psicologico che in quello matematico (dove vale “rapporto”): riteniamo dunque “ragione” la più adeguata traduzione del termine.

[6] θηρίον non ha in greco il valore spregiativo che ha in italiano “bestia”. La traduzione più appropriata sarà “fiera” o, se si vorrà evitare un arcaismo, si dovrà ricorrere alla perifrasi “animale non umano”.

[7] Cfr. PA III 4.666a34: la sensazione è ciò che definisce l’animale. Più specificamente, il tatto, il più basilare tra i cinque sensi, costituisce la base di tutte le eventuali altre forme di sensazione; è dunque il tatto a essere coesteso al genere animale, definendolo essenzialmente (De an. III 13.435b4-17).

[8] De an. II 7-11, Sens. 1-6.

[9] La phantasia è attribuita agli animali in De an. III 3.429a5-9 con il compito di motivare all’azione; tale ruolo è tematizzato più ampiamente in MA 6-8, dove più volte è proposto il parallelo tra il ruolo che la phantasia non controllata dal pensiero (νοῦς) svolge negli animali non umani e il ruolo del pensiero nell’uomo quale facoltà motivatrice e orientatrice dell’azione. Cfr. De an. III 10.433a12 e 27, e MA 6.700b18-21. Per la traduzione di νοῦς in questi luoghi, con “pensiero”, cfr. Nussbaum (1985) p. 333; Primavesi & Corcilius (2018) p. 103.

[10] Cfr. Mem. 2.453a6-10 per l’attribuzione ad alcuni animali della memoria, τὸ μνημονεύειν (non però dello ἀναμιμνήσκεσθαι, che è una sorta di συλλογισμός τις, e non appartiene, dice Aristotele, ad alcun animale conosciuto, tranne che all’uomo). Cfr. anche An. post. II 19.99b34-100a6, Metaph. A 1.980b26, dove però non è chiaro se il concetto di ‘memoria’ in gioco sia quello tecnico sviluppato nel De memoria, il possesso di una rappresentazione in quanto immagine di un evento passato (Mem. 1.451a15-17). Cfr. Lanza in Lanza & Vegetti (1971) n. 30.

[11] Coles (1997) p. 293, nota che la scala naturæ cognitiva abbozzata da Aristotele è talvolta formulata in termini di ‘più-e-meno’, talaltra in termini di analogia. Pur descrivendo e interpretando in modo spesso brillante i passi dove Aristotele parla di una forma di intelligenza non umana, Coles sembra però sottovalutare le difficoltà insite nell’attribuire ad Aristotele la tesi per cui gli animali avrebbero νοῦς (1997, p. 296). Una posizione che equilibra queste difficoltà si trova in Schmitt (1997). Sulle differenze riconosciute da Aristotele tra cognizione umana e non umana cfr. Van der Eijk (1997) p. 255. Sulla genesi del concetto di scala naturæ si mostra ancora utile il classicissimo Solmsen (1955); sulla struttura dello stesso si veda invece Granger (1985).

[12] Hist. anim. VIII 1.588a25-b2: Τὰ μὲν γὰρ τῷ μᾶλλον καὶ ἧττον διαφέρει πρὸς τὸν ἄνθρωπον, καὶ ὁ ἄνθρωπος πρὸς πολλὰ τῶν ζῴων (ἔνια γὰρ τῶν τοιούτων ὑπάρχει μᾶλλον ἐν ἀνθρώπῳ, ἔνια δ’ ἐν τοῖς ἄλλοις ζῴοις μᾶλλον), τὰ δὲ τῷ ἀνάλογον διαφέρει· ὡς γὰρ ἐν ἀνθρώπῳ τέχνη καὶ σοφία καὶ σύνεσις, οὕτως ἐνίοις τῶν ζῴων ἐστί τις ἑτέρα τοιαύτη φυσικὴ δύναμις. Φανερώτατον δ’ ἐστὶ τὸ τοιοῦτον ἐπὶ τὴν τῶν παίδων ἡλικίαν βλέψασιν· ἐν τούτοις γὰρ τῶν μὲν ὕστερον ἕξεων ἐσομένων ἔστιν ἰδεῖν οἷον ἴχνη καὶ σπέρματα, διαφέρει δ’ οὐδὲν ὡς εἰπεῖν ἡ ψυχὴ τῆς τῶν θηρίων ψυχῆς κατὰ τὸν χρόνον τοῦτον, ὥστ’ οὐδὲν ἄλογον εἰ τὰ μὲν ταὐτὰ τὰ δὲ παραπλήσια τὰ δ’ ἀνάλογον ὑπάρχει τοῖς ἄλλοις ζῴοις. (Sull’inciso ὡς εἰπεῖν, 588b1, omesso in Aa e Ca, cfr. infra, n. 13.) Ove non altrimenti indicato, tutte le traduzioni da testi antichi o stranieri sono mie. Si noti tra l’altro che, se ha ragione Fazzo (2004), secondo cui il De motu animalium non è un trattato sui principi del movimento animale, bensì “un texte composite sur le principe universel de tout mouvement possible” (p. 229), aumenta l’importanza di Hist. anim. VIII e IX, perché è a questi libri che sarebbe delegata l’unica presentazione delle teorie di Aristotele sui comportamenti animali.

[13] Per ora seguiamo il testo di Louis, ma dobbiamo tener conto che molto probabilmente questo inciso è un’inserzione tardiva. Come Silvia Fazzo mi fa notare, in 588b1 l’inciso “ὡς εἰπεῖν” (qui tradotto “per così dire”) non compare nei codici Aa, Marcianus 208, e Ca, Laurentianus 87.4 (Louis 1969, p. 2). Questi secondo Louis i due manoscritti più antichi tra quelli integri superstiti, la cui autorità è corroborata dai frammenti del vetustissimus Parisinus Suppl. gr. 1156 (Louis 1964, pp. xlvii-xlviii). L’argomento dello studio presente risulta peraltro per più aspetti rinforzato se si opta per il testo di Aa e Ca. D’altronde, sempre come nota Fazzo (per verba), per Aristotele le facoltà dell’anima progressivamente si includono le une nelle altre: questo schema teorico, nella sua estrema generalità, implica una forma di significativa identità fra alcune facoltà dell’anima umana e quelle degli animali inferiori.

[14] A 588a28 Aristotele mette in rapporto di analogia gli infanti e gli animali con gli uomini adulti; tra infanti ed animali pone invece una sorta di identità, molto più forte di un’analogia. Se il caveat “per così dire” (ὡς εἰπεῖν, 588b1) non è una glossa posteriore (cfr. n. prec.), esso si riferisce alle facoltà cognitive infantili, il “seme” da cui poi si svilupperanno le facoltà cognitive umane adulte, fenomeno impossibile nelle facoltà animali. Eccetto questa differenza le facoltà cognitive degli infanti si mostrano identiche a quelle animali, almeno nella prospettiva in esame. Certo, ogni specie animale avrà le sue facoltà e le sue modalità cognitive proprie – come diffusamente illustrato dagli interi libri VIII e IX della Historia animalium –, e analogamente saranno differenti gli infanti umani dagli altri animali, in modo che le differenze cesseranno di apparire un “nulla”. Tuttavia, a un determinato livello di generalità, Aristotele afferma chiaramente che è possibile considerare le facoltà cognitive dell’infante identiche a quelle di alcune specie animali. Ciò implica che l’anima sia soggetta a successivi momenti di sviluppo, in contrasto con la ben nota dottrina che ritiene l’anima non soggetta al cambiamento: cfr. Phys. I 9.192a27-29. Cfr. anche De an. I 4.408b1-18. Probabilmente, coloro che hanno operato l’inserzione della clausola “ὡς εἰπεῖν” lo hanno fatto proprio perché convinti che il testo, così come era stato loro tramandato, porrebbe una ‘sfida’ al ben noto passo De an. I 4.408b1-18. E la stessa ratio ha guidato le scelte editoriali di Louis. Si tornerà sulla questione infra, §5.

[15] Trattare questo aspetto, estremamente sfumato, visto che non mancano affermazioni aristoteliche in apparente contrasto con l’esegesi standard, secondo cui l’anima non è soggetta a mutamento e movimento (cfr. p.es. Somn. vig. 1.454a9-10, Phys. VII 2.244b11-12), richiederebbe un contributo a sé.

[16] Per quanto poi riguarda l’anima vegetativa e riproduttiva, la biologia aristotelica prevede che quella di ciascuna specie sia distinta da ogni altra, visto che essa gestisce le funzioni di crescita, mantenimento e riproduzione di corpi da specie a specie diversi, che richiedono operazioni diverse: cfr. Menn (2002), in particolare pp. 121-2.

[17] Che Whiting (2002) chiama “anima motrice” (locomotive soul). Spetta a questa studiosa il merito di aver chiarito due differenti tipi di relazione tra le funzioni del vivente: la prima tra funzioni diverse che investono la stessa parte dell’anima, la seconda tra funzioni che pertengono a parti diverse dell’anima. La posizione di Whiting rivede quella di Menn (2002) e in qualche modo la integra.

[18] Un’introduzione, comprensiva di discussioni metodiche, allo studio delle modalità cognitive degli animali è costituita da Vallortigara (2000).

[19] Riassumendo: l’identità, presunta da Aristotele, tra le prestazioni cognitive di cui l’infante è attualmente capace prima di acquisire il linguaggio e quelle di alcuni animali non umani permette di usare la condizione infantile umana come caso parallelo dei tipi di cognizione di cui quegli animali sarebbero capaci: la gradualità stessa del passaggio dalla condizione infantile a quella adulta che si esprime attraverso il linguaggio dà ragione di ritenere che tra l’una condizione e l’altra lo iato non sia invalicabile. Si ottengono così due conclusioni generalissime, distinte: (1) l’anima di alcuni animali non umani obbedisce allo stesso tipo di funzionalità dell’anima degli infanti umani; (2) l’anima dell’uomo adulto è frutto di uno sviluppo che, partendo da un livello identico a quello di alcuni animali non umani, porta a un altro livello.

[20] Per questo valore del verbo greco, sono particolarmente significativi esempi come A. Pr. 957, S. Aj. 1318-9, Ph. 75, E. Hipp. 603, Tr. 638.

[21] Esame dei valori del verbo quando è usato da Aristotele in Kal (1988) p. 149 n. 6 e Polansky (2010) pp. 255, 334, 394.

[22] Infatti, se la sensazione elementare fosse già proposizionale e fosse già una forma di giudizio, Aristotele non potrebbe appellarsi a essa nella spiegazione della genesi della proposizionalità e delle facoltà di giudizio, come invece fa in An. post. II 19.99b32-100a3, dove, in coerenza col De anima, la sensazione è caratterizzata come una facoltà o capacità o potenza (δύναμιν) “discriminativa” (κριτικήν, 99b35). Su questo punto cfr. Barnes (2002) p. 263: “it seems more probabile that he had discrimination rather than judgement in mind […]: if a capacity to judge presupposes some conceptual mastery, then Stage (A) [quello della sensazione] will already involve the possession of concepts, and the […] account cannot coherently function as an account of concept-acquisition”, e Detel (1993) p. 831: “Die Wahrnehmung […] ist also nicht notwendigerweise propositional”.

[23] Abbiamo argomentato in pro della nostra interpretazione della teoria di Aristotele sulla sensazione elementare in Feola (2014). Qui prendiamo le mosse da questa ipotesi di lavoro, fondamento necessario del contributo. L’ipotesi proposta è compatibile d’altronde con una corrente di interpretazione bene attestata, nella quale si collocano, tra gli altri, Ward (1988), Silverman (1989), Sisko (1996), Rapp (2001), Polansky (2010), che attribuisce alla sensazione elementare in Aristotele natura di intenzionalità, in virtù del suo carattere trasduttivo: gli stati interni all’animale corrispondono agli stati ambientali esterni in base ad un legame di corrispondenza funzionale.

[24] Su questa lettura dell’argomento del capitolo cfr. Temistio 87.19 Heinze e si veda Watson (1982) p. 101 e Feola (2012): De anima III 3 è una digressione relativamente autonoma nell’ambito del De anima – sui criteri per distinguere, nell’ambito delle facoltà cognitive, quelle pertinenti a sensazione e percezione da quelle pertinenti a ragione e intelletto. La phantasia non è dunque il tema principale, ma è introdotta in maniera strumentale come connettivo tra i due ambiti.

[25] Il greco antico non distingue tra “sensazione” e “percezione”. Il sostantivo αἴσθησις e il verbo αἰσθάνομαι si riferiscono genericamente all’azione di “notare/accorgersi di x”. Cfr. supra, n. 21.

[26] An. post. II 19.99b36-100a1: ἐνούσης δ’ αἰσθήσεως τοῖς μὲν τῶν ζῴων ἐγγίγνεται μονὴ τοῦ αἰσθήματος, τοῖς δ’ οὐκ ἐγγίγνεται. ὅσοις μὲν οὖν μὴ ἐγγίγνεται, ἢ ὅλως ἢ περὶ ἃ μὴ ἐγγίγνεται, οὐκ ἔστι τούτοις γνῶσις ἔξω τοῦ αἰσθάνεσθαι· ἐν οἷς δ’ ἔνεστιν αἰσθομένοις ἔχειν ἔτι ἐν τῇ ψυχῇ.

[27] Su De an. III 3 la bibliografia è molto estesa. Le interpretazioni che riteniamo più affini alla nostra sono quelle di Frede (1992), Caston (1996) e Rapp (2001); sulla stessa linea anche l’interpretazione del De motu animalium proposta da Corcilius (2008) pp. 211-5.

[28] Ciò sembra implicito nell’uso del verbo “generare” (γίγνομαι) per indicare il rapporto tra sensazione e phantasia, visto che tale verbo è normalmente usato per descrivere la generazione di un essere vivente da parte di parenti della stessa specie: sembra dunque appropriato a caratterizzare il venire all’essere di qualcosa a opera di qualcos’altro di omogeneo.

[29] Il caveat è reso necessario dal riconoscimento, da parte di Aristotele, del fenomeno dell’alterazione dell’apparenza dell’oggetto intenzionale a causa del progressivo ‘decadere’ della traccia fisiologica lasciata nel corpo senziente dall’esperienza originaria: cfr. Insomn. 2.459b13-18. Ciò che qui importa è che i due oggetti intenzionali ricadono entrambi nell’ambito della modalità visiva dell’esperienza, o entrambi nella modalità uditiva, ecc. Per il concetto di ‘modalità sensorio-percettiva’, ossia di tipo di esperienza ascrivibile al paradigma di un senso o di un altro, cfr. Humphrey (1998).

[30] Il caso più semplice è quello delle after-images, descritto in Insomn. 2.459b13-18: dopo aver lanciato uno sguardo a una fonte di luce, se chiudiamo gli occhi possiamo notare che continuiamo ad avere un’esperienza visiva che è frutto del ‘decadere’ della stimolazione, e che muta di fenomenologia conseguentemente al progredire del decadimento.

[31] Come tipicamente accade nel sogno: cfr. Insomn., passim.

[32] Per la tipologia di errore dovuta a sfavorevole condizione fisiologica, cfr. Insomn. 2.460b11-16: a un febbricitante appaiono figure di animali su un muro a partire da una somiglianza delle screpolature che vi s’incrociano. Come errore dovuto a condizioni ambientali sfavorevoli (p.es. assenza di adeguati punti di riferimento), cfr. l’incapacità di apprezzare ‘a occhio’ che il Sole sia più grande della Terra: De an. III 3.428b2-3.

[33] Tali plessi si creano in virtù della loro aggregazione endogena, in modo spontaneo, a causa di effetti collaterali dell’esercizio dei sensi, oppure a causa dell’abitudine, ossia del ripetersi di stimoli percettivi simili tra loro, la cui regolarità dirige in direzioni determinate la loro produzione interna. L’attribuzione agli animali di abitudini percettive create dalle passate esperienze è studiata da Labarrière (1984), (1990), (2005).

[34] Ciò, come detto, dovrebbe avvenire per aggregazione spontanea di tracce di esperienze passate. Nel caso degli animali capaci di logos (secondo Mem. 2.453a7-14), la costruzione può avvenire anche mediante esercizi consapevoli del ragionamento (p.es. quando le persone addestrate nella mnemotecnica costruiscono e usano i loro teatri interiori: cfr. Mem. 2, per totum, e Sorabji 1972, pp. 22-46). Nel caso degli animali non razionali capaci di costruzioni consapevoli che si avvicinano alle prestazioni del logos (cfr. infra, §5), tali prestazioni andranno attribuite alla facoltà pre-razionale analoga al ragionamento.

[35] Sul fenomeno descritto in Insomn. 2.460b11-16, cfr. supra, n. 32. Sembra che ciò che impedisce al febbricitante di smentire una phantasia errata sia lo stato di scarsa operatività di questa funzione. Sulla teoria aristotelica circa il “principio controllore e dirimente”, cfr. Kahn (1966), Modrak (1989). Sia su Aristotele sia sulla ricezione tardoantica e medievale della teoria cfr. Bydén & Radovič (2018).

[36] Sul concetto di ‘moto sensibile’ cfr. Somn. vig. 1.454a2-4: τὸν δὲ αἰσθανόμενον ἐγρηγορέναι νομίζομεν, καὶ τὸν ἐγρηγορότα πάντα ἢ τῶν ἔξωθέν τινος αὶσθάνεσθαι ἢ τῶν ἐν αὑτῷ κινήσεων; “riteniamo che chi percepisca vegli, e che ogni individuo sveglio percepisca o qualcuno dei moti [provenienti] dall’esterno o [qualcuno dei moti] in lui stesso [insiti]”.

[37] Vegliare è identico a esercitare la sensazione (Somn. vig. 1.454a2-4); ed esercitare la sensazione consiste nel ‘subire’ l’azione di moti sensibili k indotti da qualità sensibili di oggetti esterni, o da stati interni (parimenti sensibili) del nostro corpo.

[38] Tutta la discussione in Sens. 7 è volta a risolvere l’aporia su come possiamo avvertire due diversi sensibili al contempo se “l’impulso sensibile maggiore ottunde il minore” (ἡ μείζων κίνησις τὴν ἐλάττω ἐκκρούει, 447a14-15), sicché il primo dovrebbe rendere inavvertibile il secondo, e quest’ultimo dovrebbe diminuire la discernibilità del primo. Tale discussione dà per presupposto che i sensibili esterni, e gli impulsi sensibili che ne derivano, differiscano per quantità puntuale, ossia per essere “maggiore” o “minore” in un dato lasso di tempo in cui intervengono insieme: ossia per quella che possiamo parafrasare come “intensità”.

[39] Si ricordi che freddo2 ≠ freddo: il freddo è una qualità dell’ambiente; il freddo2 è lo stato del cuore che corrisponde al freddo.

[40] Cfr. Feola (2012) pp. 87-91. Questa ricostruzione si fonda in toto sull’ipotesi che Aristotele ponga a fondamento della percezione complessa la sua teoria sulla phantasia. Diversa è la lettura di Gregorič (2007) pp. 59-60, il quale ritiene che sia possibile ricostruire la teoria della percezione complessa dal cosiddetto “senso comune” (common sense), senza chiamare in causa la phantasia.

[41] Gregorič (2007) pp. 205-6, ammette tuttavia che la phantasia giochi un ruolo nella percezione dei sensibili per accidens.

[42] Insomn. 2.460b11-16: διὸ καὶ τοῖς πυρέττουσιν ἐνίοτε φαίνεται ζῷα ἐν τοῖς τοίχοις ἀπὸ μικρᾶς ὁμοιότητος τῶν γραμμῶν συντιθεμένων. καὶ ταῦτ’ ἐνίοτε συνεπιτείνει τοῖς πάθεσιν οὕτως, ὥστε, ἂν μὲν μὴ σφόδρα κάμνωσι, μὴ λανθάνειν ὅτι ψεῦδος, ἐὰν δὲ μεῖζον ᾖ τὸ πάθος, καὶ κινεῖσθαι πρὸς αὐτά.

[43] De an. III 3.427a29-b6: ciò che qui Aristotele contesta alle teorie presocratiche sulla cognizione è proprio l’incapacità di spiegare, in base ai medesimi principi, tanto la verità quanto l’errore. Nel corso del capitolo, Aristotele si focalizza sull’errore percettivo. Il caso più rivelativo, che Aristotele mobilita contro Platone, è quello dell’impossibilità di percepire correttamente la dimensione del Sole (428b2-9): esso infatti avviene anche quando l’opinione è corretta. Su De an. III 3 come contestazione delle teorie presocratiche e platoniche dell’errore, cfr. Caston (1996) e Feola (2012).

[44] Vedi in Insomn. questi esempi di percezione erronea di sensibili per accidens che chiamano esplicitamente in causa la phantasia: 2.460b3-7, erronea identificazione di persone umane; 460b11-13: l’errore percettivo dell’animale sul muro, che comporta anche un’errata percezione di moto.

[45] Frede (1992) p. 283: la phantasia è all’opera in tutte le percezioni di sensibili comuni e per accidens, per provvedere al completamento e continuità del campo percettivo, dal momento che la sensazione dei sensibili propri, per lo Stagirita, è puntuativa. Cfr. anche Beare (1906) p. 289.

[46] Cfr. HA IX 1.608a11, per l’ascrizione di caratteri (ἤθη) agli animali.

[47] Cfr. EN II 1.1103a17-18, anche per il legame etimologico presunto da Aristotele tra “carattere” e “abitudine” (ἔθος).

[48] Div. 1.464a32-b1: οἱ δὲ μελαγχολικοὶ […] διὰ τὸ μεταβλητικὸν ταχὺ τὸ ἐχόμενον φαντάζεται αὐτοῖς.

[49] Div. 1.464b4-5: ἔτι δὲ διὰ τὴν σφοδρότητα οὐκ ἐκκρούεται αὐτῶν ἡ κίνησις ὑφ’ ἑτέρας κινήσεως.

[50] Cfr. anche Sens. 5.444a1-3; Mem. 2.451b10-14, 452a26-27; Div. 464a33-b5.

[51] Cfr. Beare (1906) p. 315: la successione di moti fantastici imita, sotto forma di regolarità statistica, la relativa regolarità della successione dei moti percettivi. Questo meccanismo rappresenta la chiave di volta di tutta la teoria aristotelica sulla cognizione sensorio-percettiva complessa; a Beare spetta il merito di averlo portato all’attenzione degli interpreti.

[52] Un’ipotesi possibile è che Aristotele identificasse i minori o maggiori gradi di adattamento dell’habitus all’ambiente al modo seguente: se l’animale ha un bagaglio di phantasmata tale da identificare senza equivoci ogni situazione rilevante per i fini vitali postigli dalla sua natura nel suo habitat, ha raggiunto l’habitus ottimale. Resta verosimile che per Aristotele l’optimum non sia mai raggiunto; ma il fatto che egli parli di gradi di errore (cfr. De an. III 1.425b7: μάλλον e 3.428b25: μάλιστα) sembra implicare che egli supponesse la possibilità di un optimum, rispetto al quale la condizione di un animale x in un dato momento y può considerarsi più o meno distante.

[53] Insomn. 2.460b23-25: οὐ μόνον τοῦ αἰσθητοῦ κινοῦντος φαίνεται ἀδήποτε, ἀλλὰ καὶ τῆς αἰσθήσεως κινουμένης αὐτῆς, ἐὰν ὡσαύτως κινῆται ὥσπερ καὶ ὑπὸ τοῦ αἰσθητοῦ.

[54] Categorico, su questo punto, il capitolo De an. II 5, in particolare 416b33-417a9.

[55] Automaticamente eliminando le irregolarità con la mera forza del numero.

[56] Kanisza (1980) pp. 333-6 descrive questo esperimento: a un gruppo di persone viene mostrato un quadrato di legno scomposto in parallelepipedi e triangoli irregolari; e viene loro chiesto di ricostruirlo. Il tempo medio di riuscita è 8’43”; a un altro gruppo è sottoposto lo stesso quadrato, scomposto nello stesso modo, salvo che al centro, prima di scomporlo, era stato dipinto un cerchio rosso. Il tempo medio di riuscita è ora di 3’26”; le parti rosse dei pezzi del quadrato segnalano infatti la parte di ciascun pezzo da rivolgere verso il centro della figura: ricostruito il cerchio, automaticamente è ricostruito il quadrato. Credo sia questo il tipo d’efficacia che Aristotele assegna alla percezione per accidens.

[57] Nei viventi la composizione dei phantasmata dipende dalla costituzione fisica individuale, dalle esperienze passate e dall'apparato sensoriale di cui sono dotati per specie. Le differenze tra habitus di diversi individui rispecchiano le nature degli individui stessi: due gatti avranno habitus uguali per specie, un gatto e una lince uguali per genere.

[58] Animali che apprendono dall’esperienza: HA IX 6. Comportamenti frutto d’intelligenza: HA IX 6.612b4-5, 10; 37.621b28ss.; 40.627b22. Comportamenti efficaci non si sa se appresi o innati: HA IX 6.611b32ss.; 612a3, 12, 24, 35; 8.613b18; 11; 32.619a20, 32, b4; 55.611b23 ss. Riconoscimento del luogo di una passata esperienza: HA VIII 28.606a2-5.

[59] Sono disposizioni (ἕξεις) e le disposizioni sono qualità: cfr. Cat. 8.8b27; due righe dopo, in b29, si menzionano, come esempi di disposizioni, le scienze, che sono un caso chiarissimo di disposizioni cognitive acquisite, cui sembra dunque legittimo affiancare le capacità fantastiche acquisite.

[60] Mi sembra questa la posizione di Morel (2007) e (2016) p. 11.

[61] Cfr. la metafora del seme che si articola in essere vivente compiuto: H. VIII 1.588a33 (loc. cit., cfr. §1)

[62] Per la ricostruzione della teoria aristotelica sullo sviluppo diacronico della facoltà cognitive umane cfr. Feola (2009).

[63] An. post. II 19.100a1-: πολλῶν δὲ τοιούτων γινομένων ἤδη διαφορά τις γίνεται, ὥστε τοῖς μὲν γίνεσθαι λόγον ἐκ τῆς τῶν τοιούτων μονῆς, τοῖς δὲ μή.

[64] An. post. II 19.100a3 e 4-5: Ἐκ μὲν οὖν αἰσθήσεως γίνεται μνήμη […], ἐκ δὲ μνήμης πολλάκις τοῦ αὐτοῦ γινομένης ἐμπειρία· αἱ γὰρ πολλαὶ μνῆμαι τῷ ἀριθμῷ ἐμπειρία μία ἐστίν. 

[65] Che la preposizione ἐκ possa essere usata da Aristotele per indicare composizione anche nel caso dell’assemblamento di stati cognitivi, lo mostra, p.es., Sens. 7.448b27-28, dove l’uso della preposizione a proposito della composizionalità degli stati cognitivi rispecchia gli innumerevoli usi nello stesso capitolo (e linguisticamente più ovvi, perché tipici della prosa non filosofica) della stessa a proposito della composizione dei caratteri del mondo esterno che sono oggetti di sensazione.

[66] Cfr. Metaph. A 1.980b29-981a1: αἱ γὰρ πολλαὶ μνῆμαι τοῦ αὐτοῦ πράγματος μιᾶς ἐμπειρίας δύναμιν ἀποτελοῦσιν, “infatti le molte memorie della stessa cosa portano a compimento il potere [causale] di un’unica esperienza”.

[67] Cfr. Plat. Phil. 34a10.

[68] An. post. II 19.100a3-9: ἐκ δ' ἐμπειρίας ἐκ παντὸς ἠρεμήσαντος τοῦ καθόλου ἐν τῇ ψυχῇ, τοῦ ἑνὸς παρὰ τὰ πολλά, ἂν ἐν ἅπασιν ἓν ἐνῇ ἐκείνοις τὸ αὐτό, τέχνης ἀρχὴ καὶ ἐπιστήμης.

[69] In Mem. 2 sono catalogate le varie tipologie di rapporto tra impulsi fantastico-percettivi: tipologie sulla cui base Aristotele imposta una spiegazione e giustificazione teorica dell’arte della mnemotecnica. Qui Aristotele scrive che gli impulsi in questione possono collegarsi, a volte, per una relazione (tra le altre possibili tipologie pertinenti di relazione) di parte-tutto o tutto-parte (Mem. 2.451b12, 452a26-27: “infatti i moti [i moti fantastici che sono portatori di stati cognitivi relativi agli oggetti che si desidera ricordare], rispetto ad alcuni di essi [rispetto ad alcuni dei moti fantastici che abbiamo già a disposizione senza doverli richiamare] sono proprio gli stessi [e quindi non c’è bisogno di esercitare la mnemotecnica], rispetto ad altri sono in relazione di immediata contemporaneità [gli oggetti e situazioni cui si riferiscono si presentarono in contemporanea], e di altri ancora sono in relazione di parte-tutto”, αἱ γὰρ κινήσεις τούτων τῶν μὲν αἱ αὐταί, τῶν δ’ ἅμα, τῶν δὲ μέρος ἔχουσιν). Questa descrizione copre più casi: quello in cui un dettaglio è richiamato alla memoria come parte di una situazione o scenario più vasto; ma anche quello in cui lo scenario o situazione più vasta è richiamata come contesto del dettaglio, in modo che la ripresentazione del contesto è parte dello stato mnemonico relativo al dettaglio; copre poi il caso in cui un aspetto della cosa richiama la totalità della cosa, o viceversa; e anche quello in cui un caso singolo richiama la previamente assimilata esperienza circa la categoria generale, o viceversa. La relazione parte-tutto è tra le relazioni cardinali intrattenute dagli oggetti di esperienza sensorio-percettiva (che poi diventano oggetti di memoria) che Aristotele riconosce.

[70] An. post. II 19.100a16-b1: καὶ γὰρ αἰσθάνεται μὲν τὸ καθ’ ἕκαστον, ἡ δ’ αἴσθησις τοῦ καθόλου ἐστίν, οἷον ἀνθρώπου, ἀλλ’ οὐ Καλλίου ἀνθρώπου.

[71] Cfr. Wedin (1988) pp. 157, 252: la sensazione è sempre e solo sensazione di tipi; per quanto riguarda la sensazione dei sensibili per accidens, concordo con lui.

[72] Ibid.

[73] In Falcon (2021) si offre un’interpretazione analoga del pensiero di Aristotele sulla mente infantile: ciò che manca agli infanti, quando stanno iniziando a parlare senza avere piena cognizione dell’uso corretto delle parole (cfr. Phys. I 1.184a16-23), è la capacità di delimitare i termini linguistici in accordo col significato che essi hanno nella lingua degli adulti. Essi non avrebbero la capacità di demarcare tra loro i diversi universali denotati dai diversi termini: “I argue that Aristotle’s diagnosis of the problem is that there is not enough conceptual articulation in the infant mind that calls all men ‘papa’ and all women ‘mama’” (p. 369), “they do not yet have the ability to draw conceptual distinctions, which requires the acquisition and correct use of the relevant concepts” (p. 380); perciò, pur essendo percettualmente capaci di distinguere quei particolari individui che sono la madre e il padre dagli altri esseri umani (p. 373), non applicano i nomi “padre” e “madre” con la dovuta proprietà.

[74] Infatti Aristotele attribuisce la voce (φωνή), cioè il suono significativo (σημαντικός τις ψόφος: De an. II 8.420b33; cfr. anche II 8.420b5, 29; GA V 7.786b24), anche ad animali non umani: gran copia di luoghi pertinenti in Bonitz (1960), s.v. “φωνή”.

[75] Scrive De Haan (2018) p. 8 (enfasi mia): “intellectual understanding and conceptualization about the world can be knowledge only if understood conceptualizations have been rationally verified in a judgment that truly grasps such-and-such is the case. And this requires intellectual reflection on the phantasms as well as vigilant observations and continuous active exploration of the world”. Secondo lo studioso, cioè, per Aristotele il livello intellettivo-razionale e quello sensorio-fantastico oltre ad essere in una relazione di costituzione materiale (il livello sensorio-percettivo fornisce la materia di quello razionale-intellettuale) si problematizzano a vicenda nella loro portata veritativa: solo così, infatti, la cognizione umana può essere spiegata nella sua complessità, ovvero come rapporto tra i due diversi livelli di astrazione propri di percezione-immaginazione e ragione-intelletto. De Haan (2018) p. 10, condivide l’idea aristotelica che le operazioni immaginative ed estimative necessarie ad un appropriato orientamento nell’ambiente naturale appartengano al livello sensorio dell’organizzazione del vivente: “Humans (and other animals) deploy a range of personal level (or animal level) psychosomatic abilities, call these psychological level attributes. These psychosomatic abilities can be distinguished into lower-level psychosomatic operations like seeing, hearing, and touching, and higher-level psychosomatic operations like enactive perceptual and estimative registration, memory, motivation, emotion, and a range of executive functions. These higher-level and lower-level psychosomatic operations are all animal level attributes, which admit of a surfeit of sub-animal level attributes, such as the complex hierarchy of multilevel mechanisms […]. Lower-level and higher-level psychosomatic operations interact with each other in a variety of complex ways. Sometimes the lower-level psychosomatic operations are actualized by environmental stimuli which thereby drive the coordinated manifestations of higher-level psychosomatic operations. In other cases, the animal’s powers for enactive perception, motivation, and executive registrations enable the animal to exert effective control over the coordinated manifestation of its higher-level and lower-level psychosomatic powers, such as the animal’s capacities for enactive sensory perception and motivation that guide locomotion”.

[76] I miei più sentiti ringraziamenti a Silvia Fazzo per i preziosi suggerimenti, a Marco Ghione e Clelia Attanasio per i consigli redazionali.